Un’anfora tra i copertoni torna alla luce durante un’iniziativa di Marevivo. Un’operazione organizzata in collaborazione con realtà e istituzioni nazionale e locali. Con l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini sull’importanza di tutelare l’ecosistema marino. Poi spunta la sorpresa e tutto cambia…
Prologo
Ovvero come trovarsi in autostrada alle 7:30 del mattino
Succede che mi invitano a partecipare ad un’attività di recupero di pneumatici fuori uso al porto di Viareggio, organizzata da Marevivo. E per fare una roba del genere, succede pure che alle 7:30 della mattina sia già in autostrada alla volta della Toscana, in compagnia di Roberto Bottini.
In realtà, tutto questo sbattone serve a fare solo tanta schiuma. Vado lì per salutare qualche amico, stringere qualche mano e, soprattutto, per trarre qualche spunto per raccontare questo evento per i ragazzi di Marevivo. Infatti, io e Roby dovremo solo fornire assistenza a terra perché in acqua, in quell’acqua salmastra, ci andranno i palombari e i subacquei della Marina Militare.
Perché questa operazione, mi spiega Marina Gridelli, delegata regionale di Marevivo, è stata organizzata in collaborazione con realtà e istituzioni nazionale e locali. Con l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini sull’importanza di tutelare l’ecosistema marino.
I pneumatici fuori uso abbandonati in mare, o copertoni per noi comuni mortali, sono purtroppo un rifiuto permanente. Se vengono recuperati, invece, diventano una risorsa riciclabile al 100% e sono riutilizzabili per creare nuovi materiali, nel rispetto dell’economia circolare.
Mezza tonnellata di pneumatici fuori uso
E, in questa calda mattinata di inizio ottobre, di pneumatici fuori uso ne sono stati rinvenuti e recuperati quasi 50, per un peso totale di mezza tonnellata.
Oltre ai ragazzi di Marevivo e della Marina Militare hanno collaborato all’operazione il Comune, la Capitaneria e l’Autorità portuale della Regione Toscana. Fondamentale il ruolo delle aziende che si sono occupate del trasporto e dello smaltimento del materiale raccolto.
Un’anfora tra i copertoni
La sorpresa, a metà mattina
A metà mattina, dopo una pausa caffè ristoratrice, arriva la sorpresa inaspettata. Insieme ad una partita di pneumatici, sporchi e ricoperti di limo, appare, imprevista, un’anfora. È quasi completamente intatta.
Scatta la curiosità, la voglia di vederla di fotografarla. E scatta anche l’istinto assassino di fare dei selfie. Fortunatamente, viene immediatamente presa in carico dalla Capitaneria di Porto che, a sua volta, la consegnerà alla Soprintendenza territorialmente competente.
Il mio background di subacqueo che per anni si è immerso nei mari ricchi di storia di Pantelleria, dove di anfore sommerse ne ho viste a bizzeffe, mi impone di saperne di più. Di capirne la tipologia, di conoscere il periodo storico. Di provare a ricostruire un pezzettino di storia. O forse, semplicemente, di trovare una notizia che faccia scrivere un pezzo che possa vincere il premio Pulitzer. Ma sono tutte domande che rischiano di restare senza risposta…
Spunta l’esperta
E invece no. Tra i volontari di Marevivo spunta Martina che sembra sia preparata in materia. Parto in quarta, la tempesto di domande, le racconto più della metà della mia vita e quando, finalmente, anche io mi rendo conto di averle stancato sufficientemente il cervello mi zittisco e inizio ad ascoltare.
Ma innanzitutto, chi è Martina? Martina Giannini è un’archeologa, ex ricercatore di topografia antica all’Università di Bologna. È una che si è appassionata a questa disciplina grazie ad un esame, all’università. Già, perché quando le studiava non esisteva la Facoltà di Archeologia. Lei si è laureata in Lettere Antiche. Però, la tesi l’ha fatta sull’archeologia, ha fatto un dottorato di ricerca in archeologia e, non paga, ha fatto pure un post dottorato. Tutto ciò le ha permesso di diventare ricercatore nel mondo universitario, nel Dipartimento di Ingegneria Enzo Ferrari all’Università di Modena e Reggio Emilia e a quello di Storia, Cultura e civiltà di Bologna.
Ora vi ho spiegato perché Martina ne può sapere parecchio ed è assolutamente titolata per spiegarmi che cosa abbiamo di fronte. Quindi, posso finalmente lasciarla parlare per raccontarci che cosa sia stato rinvenuto in questa strana mattinata viareggina.
L’anfora
L’anfora si presenta ai nostri occhi piena di incrostazioni marine, segno che è sott’acqua da moltissimo tempo. Purtroppo manca della parte superiore, il collo e le anse (i manici tanto per capirci). E manca pure il puntale. E questi, sono elementi che rendono ancor più difficile ipotizzare la datazione e la provenienza. Tuttavia, secondo Martina, forma, dimensione e colore permettono di avanzare qualche ipotesi. Il colore è arancione e, ragazzi, vi giuro che è appena visibile all’occhio di un grezzo come me.
In particolare, confrontandola con altre anfore presenti nel Catalogo Generale dei Beni Culturali consente, ipoteticamente, di attribuire la nostra anfora al tipo cosiddetto Dressel 5. Questa tipologia risale al periodo compreso tra la il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., e proviene dalla Magna Grecia, cioè dall’Italia meridionale.Era utilizzata per il trasporto del vino.
Le anfore erano infatti contenitori per liquidi, in ceramica, trasportate tramite navi ed erano posizionate nelle stive delle imbarcazione secondo una struttura precisa. Il puntale delle anfore (la parte finale) veniva piantato nello strato di sabbia sul pavimento dello stiva. Erano poi disposte a file serrate e quelle nelle file sovrastanti incastravano il puntale tra le anse (i manici) delle anfore che si trovavano allineate sotto.
L’anfora ritrovata nel porto di Viareggio, probabilmente, doveva far parte di un carico che seguiva le rotte commerciali dall’Italia meridionale. Fino ai centri presenti sulle coste della parte più settentrionale del Mediterraneo occidentale. Tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C. l’area in cui si trova Viareggio era compresa tra le importanti colonie romane di Pisa e di Luni (Massa). Era inoltre caratterizzata dalla presenze di scali ed empori marittimi.
Il ritrovamento di questa anfora tra i copertoni nel porto di Viareggio, pertanto, potrebbe ulteriormente contribuire agli studi che si occupano dell’occupazione della Versilia in età romana.
Ma che ci fa un’anfora tra i copertoni?
Ecco la domanda alla quale uno studioso non riesce a dar risposta. La domanda di uno stanca cervelli che racconta la subacquea. Un quesito che solo un essere terribilmente pragmatico come il sottoscritto può porre. “Che cosa ci faceva un’anfora tra i copertoni nel porto di Viareggio?”
È alquanto improbabile che nel luogo esatto ove oggi sorge il porto viareggino un tempo fosse naufragata una nave carica di un giacimento di anfore. È decisamente più probabile che quel tratto di litorale sabbioso alle spalle della darsena abbia fatto parte di una rotta commerciale importante. Ed è del tutto plausibile che ci possano essere stati dei naufragi o dei semplici abbandoni del carico a causa di violenti fortunali.
E quindi? Perché c’era un’anfora tra i copertoni nel porto? Dai, voglio attirarmi un po’ di antipatie. Lancio un’ipotesi: secondo me è rimasta intrappolata in qualche rete da pesca. E i pescatori, al loro rientro, per non correre rischi l’hanno ributtata in mare.
Secondo voi è un’idea tanto strampalata?